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Questo articolo è stato aggiornato il Agosto 27, 2014
Questo è il racconto di una emozione. Forte e indelebile. Strana, a tratti. Una emozione che porta il nome di Dachau. Un campo di concentramento, il primo. Un po’ diverso dagli altri. Qui non si uccideva, ma si moriva. Sì, perché i forni crematori e le camere a gas non c’erano, almeno durante i primi anni dalla sua apertura. Si moriva di fame, di freddo, di malattia, di dolore, di stenti. Non di gas.
Poco oggi rimane di quel che era. I blocchi, numerosi, sono stati abbattuti per lasciare il posto a distese vuote e numeri incisi sulla pietra. La nostra guida ci ha raccontato che il materiale di cui erano costruiti i blocchi era così infimo che non avrebbe potuto reggere alla prova del tempo, le baracche erano già pericolanti alla fine della guerra e sarebbero crollate di lì a poco se non fossero state preventivamente abbattute. Ma la verità è un’altra. Più cruda, più calcolata: si è voluto distruggere per cancellare le prove, per la negazione, per l’estremo tentativo di “salvare la faccia”. A poco è servito, per fortuna.
Sono solo due i blocchi presenti nel campo, non gli originali ma riproduzioni fedeli. Ciò che più colpisce sono i letti. All’inizio a mò di letti singoli, separati da sbarre di legno in cui potevano dormire due o tre persone. Con il passare degli anni, quei letti singoli furono trasformati in letti ad una piazza e mezza, ugualmente separati da sbarre di legno, ma in grado di accogliere fino a 8 persone, ammucchiate le une sulle altre. L’ultima evoluzione di quei letti fu la scomparsa delle sbarre divisorie in legno, di modo che decine di persone potessero stiparsi in quei ripari di fortuna.
Oggi, in una zona del campo più periferica, si possono scorgere edifici con comignoli, quelli dei forni crematori che, costruiti negli ultimi anni prima della fine della guerra, saltuariamente furono messi in funzione. E, all’esterno di quegli stessi edifici, si notano feritoie che venivano utilizzate per introdurre all’interno delle docce i gas mortali. Durante una delle tante docce, durante uno di quegli eccidi, una mamma teneva in grembo il suo bambino. Non aveva voluto separarsene e, stretto al suo seno, lo aveva abbracciato fino all’esalazione dell’ ultimo respiro.
Quando gli uomini del sonderkommando avevano aperto la stanza per liberarla dai corpi deceduti, avevano trovato il bambino ancora vivo (il corpo della mamma lo aveva protetto dall’esalazione gassosa). Non sapevano cosa farne, come comportarsi. Erano ebrei anch’essi, sebbene con un ruolo di comando. Erano uomini e non avevano ancora perso completamente la loro umanità. Avevano deciso di condurlo in salvo, magari di affidarlo a qualche donna, lì, in uno dei blocchi,ma una SS giunse sul posto prima che la missione fosse compiuta e , fredda e spietata, uccise quel piccolo con un colpo di pistola.
Questa e tante altre storie troverete racchiuse in quelle pareti, tra i sassi e le pietre, al di qua dei cancelli, al di là della vita.
L’ingresso al Memoriale del Campo di concentramento di Dachau è gratuito e consentito tutti i giorni dalle 9:00 alle 17:00.
Se si opta per visite guidate, il biglietto è di 3 euro, quello per le audioguide 3,50 euro.
Foto di Eric Ward, Jay Galvin, Jon Parise, Marco Assini, ho visto nina volare
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